3 ostacoli alla mobilità condivisa (che però nel frattempo in Italia cresce)
Per sei italiani su dieci la mobilità è una preoccupazione quotidiana. Chi, infatti, non si è ritrovato imbottigliato nel traffico, in una lunga coda? Si sa, la bacchetta magica non esiste. Esistono, però, soluzioni o buone pratiche che possono migliorare il nostro quotidiano. Anche se magari all’inizio sono difficili da metabolizzare per la loro portata “rivoluzionaria”.
Una di queste è sicuramente la sharing mobility. Per capire meglio di cosa si tratta, basta la traduzione: mobilità condivisa. In pratica, vuol dire spostarsi con mezzi di trasporto pubblici o privati condivisi. Perché? Semplice: per ridurre l’impatto ambientale e quello del portafoglio.
A proposito del primo motivo, la dice lunga una simulazione dell’Ocse a Lisbona. Se il traffico motorizzato nella capitale lusitana venisse sostituito dalla mobilità condivisa, si avrebbero tre effetti non da poco: a) meno ingorghi stradali; b) meno parcheggi pubblici (addirittura del 95%); c) meno emissioni di CO2 (si calcola riduzione di un terzo).
In Italia il fenomeno è in crescita. L’Osservatorio Nazionale della Sharing Mobility (istituito nel 2015) ha rilevato che, nel 2018, gli iscritti ai servizi sono aumentati di un milione, arrivando a oltre 5 milioni, mentre gli spostamenti in sharing mobility hanno toccato quota 33 milioni. Il doppio rispetto al 2015! Un quadro generale, dunque, molto positivo, grazie anche alla crescita dell’offerta dei servizi, monopattini in primis.
Tutte rose e fiori? Non proprio. La crescita è certificata dai numeri, ma incontra tre grandi resistenze.
1. La mobilità in condivisione (come tutte le novità) pone diverse questioni. Come disciplinare nel codice della strada i nuovi veicoli, a partire dai monopattini? I modelli di business legati al trasporto sostenibile sono veramente convenienti? E i mezzi elettrici sono davvero così ecologici?
2. I servizi di mobilità sono gestiti con le app, via cellulare. Ciò vuol dire tagliare fuori dalla fruibilità una parte della popolazione, – quella più anziana – poco a suo agio con smartphone e nuove tecnologie.
3. Il terzo ostacolo è legato al precedente. E riguarda l’aspetto culturale. Per una più ampia diffusione del modello della sharing mobility è necessario un cambio di mentalità. Tradotto: bisogna rinunciare all’auto di proprietà o comunque condividere spazi e tempistiche con altre persone. Abitudini che, soprattutto nelle fasce d’età più mature, non sono sempre scontate. Secondo i dati dell’osservatorio, infatti, otto italiani su dieci è a conoscenza del carsharing, ma solo l’8% lo usa abitualmente.
Molto incoraggiante, tuttavia, una recente indagine realizzata per Facile.it da Up Research e Norstat su un campione rappresentativo della popolazione nazionale, conferma la crescente sensibilità degli italiani per l’impatto ambientale generato dalla propria mobilità. A tal proposito, tre dati vanno sottolineati: a) il 46,1% degli intervistati ha affermato di aver ridotto l’uso dell’auto, servendosi dei mezzi pubblici o muovendosi a piedi; b) il 12,9% ha dichiarato che, pur continuando a utilizzare la propria auto o moto, ha in programma di sostituirla con una meno inquinante, così da ridurre le emissioni di CO2; c) il 24% dei rispondenti ha intenzione di usare con più frequenza i mezzi pubblici e le proprie gambe.
La strada (è il caso di dirlo) della mobilità condivisa è ancora lunga. Eppure, qualcosa si è mosso…