Dopo il Covid che fare della plastica?
Plastica sì o plastica no? Un anno fa o anche qualche mese fa, non sarebbe stato difficile rispondere, visto che la plastica è ritenuta tra le cause principali dell’inquinamento degli oceani (e non solo). Oggi, però, l’indice di gradimento è leggermente cambiato. Il dramma della pandemia, infatti, ha risollevato l’indice di gradimento verso questo materiale, come testimonia un recente sondaggio in Germania. E il motivo semplice. Visiere, mascherine, camici e guanti: gran parte del materiale medico, che sta salvando vite e che (purtroppo) è diventato a noi familiare, è fatto di plastica. Anche la sospensione della plastic tax, per quanto dovuta al timore dell’impatto sulle aziende alle prese con la grave crisi economica, conferma come sia cambiato il sentiment attorno a questo materiale.
Numeri preoccupanti
Sarebbe, però, un errore se venissero accantonati i propositi di ridurre la plastica e l’impatto ambientale da essa provocato. Soprattutto alla luce dell’emergenza sanitaria, dato che mascherine e guanti – secondo l’Ispra (Istituto superiore per la protezione e ricerca ambientale) – comporteranno un ulteriore quantitativo di rifiuti tra le 160 mila e le 440 mila tonnellate.
A livello globale, le stime raccontano che in un anno, solo in mare, si riversano 10.000 tonnellate di plastica ogni anno. Una cifra impressionante, come documentano le immagini da tutto il mondo di animali spiaggiati e sulla quale incombe la recente previsione della World Bank secondo la quale, se non cambieremo al più presto rotta, nel 2050 i rifiuti urbani aumenteranno del 70%.
In Italia, i numeri sono meno inquietanti. Nel 2019 sono stati immessi al consumo 2 milioni di tonnellate di imballaggi in plastica e ne sono state recuperati 1,9 milioni, cioè il 92%. Di questa (alta) percentuale, il 43% è stato avviato a riciclo (oltre un milione di tonnellate di riciclato è stato trasformato in nuovi prodotti di plastica), mentre iI 49% è finito negli inceneritori e nei termovalorizzatori. Cifre incoraggianti, dicevamo, ma non per questo sufficienti a far tirare i remi in barca (a proposito di mare e oceani). Sono ancora tanti, infatti, gli imballaggi di plastica non riciclabili o che vengono bruciati. Ben 100 mila tonnellate l’anno, stando ai dati sulla raccolta dei rifiuti. Un numero troppo alto.
Ridurre, non eliminare
E torniamo all’interrogativo di partenza: plastica sì o plastica no? Se la plastica è fondamentale per la nostra salute, ma al tempo stesso il suo (non) smaltimento è nocivo per l’ambiente, cosa fare? Facile, almeno a parole: ridurla progressivamente, senza illudersi di eliminarla. Sarebbe assurdo pensare di farne a meno (tassarla è un’altra questione) visto che è presente in molti settori della nostra vita quotidiana (edilizia, industria automobilistica, giocattoli, computer, prodotti casalinghi tanto per citarne alcuni) e che non è facilmente rimpiazzabile. Sostituire la plastica con la carta, che è riciclabile e compostabile, significherebbe mettere sottopressione le foreste, ecosistemi fondamentali per combattere i cambiamenti climatici, mentre sostituire la plastica con il vetro comporterebbe un aumento di Co2 nell’atmosfera (le bottiglie di vetro per l’acqua minerale sono più pesanti da quelle in Pet e, quindi, il trasporto implica maggiori emissioni).
Senza dimenticare che se la maggior parte del packaging è superfluo e dannoso, rinunciare alle pellicole protettitve vorrebbe dire favorire lo spreco alimentare: nella grande distribuzione, il deterioramento di frutta e verdura non imballata è del 26% superiore rispetto a quello pre-imballata, mentre i generi alimentari freschi (verdure, latticini, carne) durano dai 10 ai 25 giorni in più se confezionati.
La scoperta: un nuovo metodo per distruggere la plastica
Dobbiamo rassegnarci, dunque, a un mondo di plastica? No, in nome delle cifre allarmanti accennate sopra. Anche perché la ricerca autorizza a essere ottimisti. È di queste settimane, infatti, la notizia che l’Università della California di Santa Barbara ha individuato un processo che permetterà di distruggere il polietilene, il più semplice dei polimeri sintetici nonché la più diffusa fra le materie plastiche (lo troviamo nei sacchetti di plastica, negli imballaggi alimentari, nell’isolamento elettrico alle tubazioni industriali ecc.).
I ricercatori hanno trovato un modo per accelerare il processo di scomposizione del polietilene per trasformarlo in molecole alchile aromatiche, utilizzate come tensioattivi nei cosmetici, nei detersivi per il bucato o nei lubrificanti per macchinari. La decomposizione del politine non è una novità: solo che il processo attualmente conosciuto richiede altissime temperature e l’utilizzo di solventi o idrogeno aggiuntivi; con quello scoperto a Santa Barbara, invece, sarebbero sufficienti 570 gradi Fahrenheit rispetto ai 983 e i 1832 convenzionali e un catalizzatore relativamente delicato di platino con ossido di alluminio.
il nuovo metodo, peraltro, piacerà anche le imprese: non solo è meno dispendioso in termini di energia rispetto ad altri mezzi, ma anche più economico. Certo, la nuova tecnica non è ancora pronta, ma ha comunque rafforzaro la speranza di trasformare la plastica da rifiuto altamente inquinante a materia prima di valore.
E di questi tempi non è poco.