L’Africa che ricicla i rifiuti
L’Africa è natura incontaminata, fauna selvaggia e colori mozzafiato. Ma è anche – almeno nei grandi centri – inquinamento, smog ed emergenza rifiuti con milioni di tonnellate di plastica (se ne calcolano oltre 4) che ogni anno finiscono in mare. Un continente incantevole, dunque, che spesso non riesce a valorizzare e salvaguardare bellezze e risorse che gli appartengono. Qualcosa, però, sta cambiando. C’è un’Africa, infatti, lontana dai luoghi comuni e dai pregiudizi, che ha iniziato a combattere l’inquinamento e che va raccontata.
Siamo in Senegal, Africa Occidentale, sull’Oceano Atlantico. Un Paese con una ricca eredità francese e dalle molte attrazioni naturali, che però convive da anni con un alto tasso d’inquinamento. E Dakar ne è la fotografia. Nel centro della capitale, lo smog (proveniente per lo più delle vecchie auto) la fa da padrone, mentre, appena fuori dalle periferie, ecco lo scenario sconsolante di immense discariche a cielo aperto, piene di plastica. È in questo contesto, che alcuni giovani del luogo hanno deciso di non restare a guardare e impegnarsi per salvaguardare l’ambiente e migliorare la condizione loro e della propria comunità. Come? Riciclando plastica, per l’appunto, la grande emergenza del territorio (veniva bruciata a cielo aperto oppure scaricata nei fiumi e in mare).
Il passo iniziale è stata la costruzione, nel 2017, di una scuola materna con 7 mila bottiglie di plastica. Un successo! Quello seguente, nel 2019, è stato costituirsi nell’associazione Hahatay, per poi dar vita a una serie di progetti soprannominati Defaratt (in lingua wolof significa «trasformare») in collaborazione con le autorità locali.
Il primo, tra questi, ha riguardato Thiès, città di 300 mila abitanti e capoluogo dell’omonima regione, dove discariche abusive di plastica avevano provocato pesanti danni alla salute pubblica e all’agricoltura. Un successo anche questo! Nel quartiere periferico di Silmang, Hahatay ha creato un centro di riciclaggio della plastica e rivoluzionato le abitudini degli abitanti. Così, oggi, la plastica viene raccolta dalla popolazione, trasformata in nuovi prodotti (mattoni e piastrelle, ma anche mobili, oggetti di bigiotteria e perfino skateboard) e poi venduta a imprese locali. Ciliegina sulla torta, la gestione dei rifiuti è stata affidata a un gruppo di donne, che a loro volta hanno costituito un’impresa: quest’ultima, oggi, dà lavoro fisso a 15 persone e ricicla 15 tonnellate di plastica al mese.
Non stupisce, allora, che il progetto Defaratt sia stato esteso a cinque villaggi della città di Thiès, per un’area di 7 mila kmq e 6 mila abitanti. E non stupisce neanche che anche in questo abbia funzionato, grazie a una strategia che è ormai un marchio di fabbrica: coinvolgere i capi villaggi e, a seguire, la comunità. La popolazione è stata sensibilizzata a non abbandonare i rifiuti nelle discariche illegali (nel frattempo ripulite e bonificate), ma a differenziare e depositarli nei centri di raccolta dell’associazione.
Proprio quest’ultimo aspetto è da considerarsi il punto di forza della vicenda Hashatay. Innescare un cambiamento di mentalità rispetto ai rifiuti (ma non dimentichiamo che l’esperienza di Thiès è anche un virtuoso esempio di emancipazione della donna), infatti, è la migliore garanzia per dare continuità e diffusione a queste “buone pratiche”. Non è un caso che il progetto, oltre a essere stato fonte d’ispirazione per altri Paesi dell’Africa occidentale (in Burkina Faso e Guinea Bissau), abbia ricevuto placet e finanziamenti dalla Commissione economica per l’Africa delle Nazioni Unite.
Intanto, anche in altre parti del Continente nero cresce un’Africa virtuosa che ricicla rifiuti e mostra maggiore sensibilità verso l’ambiente. In Sud Africa e in Kenya crescono le aziende che riciclano plastica, mentre in Costa d’Avorio, per soddisfare la necessità di 15mila aule in grado di ospitare bambini senza un posto in cui apprendere, sono state costruite 500 aule con la plastica. Proprio come ha insegnato Hahatay. Perché se si vuole, si può invertire la tendenza. Una lezione anche per l’opulento e spaventato Occidente.