“Più rinnovabili vuol dire meno guerre”. Parola di Gianni Silvestrini
Per il direttore scientifico del Kyoto Club possiamo e dobbiamo fare a meno del gas russo. E sul fenomeno Nimby dice: “Per fortuna qualcosa sta cambiando”.
“Bisogna guardare in avanti. La transizione non è lacrime e sangue: può rappresentare un’opportunità. Ed è quello che dovrebbe dire il ministro della transizione ecologica: è una straordinaria opportunità legata agli interventi di efficienza energetica, sviluppo delle rinnovabili, produzione di idrogeno verde, decollo della mobilità elettrica…” Gianni Silvestrini – uno dei massimi esperti italiani di politiche ambientali, direttore scientifico del Kyoto Club – è convinto che si debba guardare con fiducia a quello che sarà un evento epocale per il mondo intero. Un cambiamento estremamente positivo, se ben gestito. E adesso sono in molti a comprenderlo, anche nel mondo sindacale. “Venti gironi fa, ho partecipato a un’assemblea a Torino con 200 delegati sindacali della Fiom e ambientalisti: la cosa interessante è che loro avevano ben chiaro l’errore di una posizione di difesa e di chiusura rispetto alla transizione verso l’auto elettrica.”
Silvestrini è adesso in libreria con Che cosa è l’energia rinnovabile oggi (Edizioni Ambiente): un libro a più mani, realizzato con il contributo di esperti di vari settori, che cerca di offrire delle risposte alla crescente domanda di informazione sul tema delle rinnovabili. “Una domanda che viene dai giovani del Fridays for Future, ma anche dal sindacato, dalle scuole, dalle imprese dell’energia pulita. Abbiamo pensato che fosse utile fare il punto della situazione, analizzando le prospettive e le criticità di questo settore. L’aggressione all’Ucraina ha accelerato l’attenzione sulle rinnovabili: in questo momento c’è una grossa richiesta di approfondimento proprio a causa della delicata situazione politica”.
Partiamo proprio dall’attualità: possiamo fare a meno del gas dalla Russia?
Non solo possiamo: dobbiamo. E lo farà tutta l’Europa. È solo una questione di tempi. Avremmo già dovuto pensarci, alla luce dell’emergenza climatica. Adesso con l’attacco all’Ucraina i tempi si sono fatti più stretti: un documento della Commissione europea dice che le importazioni di gas si potrebbero ridurre di due terzi entro fine anno. Un obiettivo ambizioso. Comunque non c’è dubbio che nel giro di due, tre anni l’importazione di gas dalla Russia cesserà. Alla fine si deve constatare che la Russia si è fatta un autogol clamoroso: perderà tutte le entrate di gas e petrolio dall’Europa; punta ad aumentare l’esportazione in Cina, ma non sarà così semplice, perché molti giacimenti che alimentano l’Europa sono molto distanti dalla Cina: ci vorranno anni per costruire nuovi gasdotti.
A cosa è dovuto il caro bollette?
A tanti fattori: uno sicuramente è legato al fatto che l’uscita dalla crisi economica post covid è stata più rapida del previsto in Cina e così la domanda di energia. E poi, negli ultimi mesi dell’anno scorso e nei primi mesi di quest’anno, all’aumentare delle tensioni con le truppe russe al confine con l’Ucraina, c’è stata la reazione dei mercati: il timore di una guerra ha fatto sì che si alzassero i prezzi.
Il ministro Cingolani ha parlato di due gassificatori a noleggio per far fronte all’emergenza. Soluzione fattibile?
Sui rivenditori galleggianti non sono così critico. Nel senso che si tratta di una scelta che non è per sempre. Possono servire a fare da ponte per un certo periodo. Peraltro, nell’ultimo anno sono state costruite molte nuove navi: per cui reperirne sul mercato sarebbe possibile. Dunque, uno o due rigassificatori in fase transitoria potrebbe essere una soluzione.
I costi sarebbero sostenibili? Secondo alcuni, sarebbero dispendiosi.
Dispendiosi, con il gas alle stelle, è un dato relativo. Il problema è avere il gas. Soprattutto se in estate o a maggio (quando scadranno alcuni contatti), la Russia ci dovesse tagliare il metano.
Nel libro sostiene che la crisi climatica favorirà il successo delle rinnovabili. Perché?
La crisi climatica ha avviato il successo delle rinnovabili. Il protocollo di Kyoto del ’97 ha fatto sì che l’Europa definisse obiettivi relativamente ambiziosi per il 2020, creando un mercato delle rinnovabili (e in particolare fotovoltaico ed eolico) in Germania, Italia, Spagna e altri paesi. La creazione di un importante mercato ha creato le condizioni per favorire la costruzione di una forte industria produttrice in Cina e in Asia con il relativo crollo dei prezzi. Oggi un modulo fotovoltaico costa dieci volte di meno rispetto a una decina di anni fa.
Lei scrive che più rinnovabili vuol dire anche meno instabilità politica e meno guerre. Perché?
Diverse guerre, se si guardano gli eventi degli ultimi cento anni, sono state legate al petrolio (e di recente anche al gas). Non a caso c’è chi ritiene che avere petrolio e gas per un paese può rivelarsi una maledizione. Chiaramente, più rinnovabili si riescono a realizzare, meno si dipenderà da gas, petrolio e carbone e più aumenterà la produzione nazionale. Questo significa maggiore sicurezza.
Rimarrebbero certo ancora problemi legati ai materiali critici, che possono essere affrontati con l’innovazione e con il riciclo. Sicuramente la situazione sarebbe più tranquilla rispetto a quella che viviamo in questi giorni.
Nel libro sottolinea il fatto che Stati Uniti vorrebbero arrivare al 2035 con sola “clean electricity”. Bel proposito. Ma non contrasta con il recente piano annunciato da Biden di rilanciare impianti nucleari a rischio chiusura e lo shale gas?
Per contrappasso potrei dire che Trump aveva fatto la campagna elettorale pro carbone, ma durante il suo mandato la produzione del carbone è crollata e molte centrali sono state chiuse perché non competitive con le rinnovabili e il gas. La verità è che quella degli Stati Uniti è una situazione molto particolare. L’amministrazione centrale è importante, ma lo sono altrettanto i singoli stati. La California, ad esempio, ha politiche ambiziosissime sul clima. Sono diversi gli stati che vanno avanti su questa linea a prescindere dal presidente in carica.
In che consiste esattamente la proposta di Biden?
Quella sulla “clean electricity” di Biden è una proposta sicuramente molto ambiziosa. Per capirci, questa definizione include sia il nucleare che le rinnovabili. Ma il nucleare, negli USA, è in difficoltà come in molte parti del mondo occidentale. Le vecchie centrali hanno infatti problemi e alcune non riescono a competere con le rinnovabili e il gas. Nell’ultima finanziaria Biden ha inserito sei miliardi di dollari per evitare la chiusura di alcune centrali atomiche. Guardando ai nuovi impianti, negli ultimi 30 anni sono stati avviati i lavori solo per due reattori. Parliamo degli impianti Vogtle 3 e 4 in Georgia, la cui costruzione, iniziata nel 2013, non è ancora completata con costi schizzati alle stelle, arrivando a 30 miliardi $.
A proposito di nucleare. Che prospettive ci sono in questo settore?
Il nuovo nucleare in Occidente rappresenta un clamoroso fallimento economico. Oltre agli impianti Usa, anche. gli esempi europei della Francia e della Finlandia lo confermano. La costruzione di questi impianti si è prolungata con un aggravio di costi. “It’s the economy, stupid”, diceva Clinton nel 1992… È l’aspetto economico a scoraggiare nei paesi occidentali la costruzione di nuovi reattori.
Sole e vento: gli scettici delle rinnovabili dicono che sono fattori incerti ed esistenti solo in certe zone. Sono obiezioni valide?
In passato si diceva che c’era un limite alla quota di rinnovabili intermittenti (sole, vento) nella gestione delle reti elettriche. Si parlava di un 25 per cento, ma adesso si vede che in molti paesi sono arrivati al 30, 35, 40, 50 percento senza problemi. Questo perché si è visto che ci sono diverse soluzioni per governare la variabilità della produzione.
Per esempio? Come viene gestita all’estero?
Ad esempio, la Danimarca in diverse giornate produce con l’eolico più energia elettrica di quanta ne può consumare e quindi viene esportata verso la Norvegia, la Svezia o la Germania per poi viene reimportata quando serve. C’è poi tutto un tema sul governo della domanda. Noi parliamo di produzione flessibile intermittente e diamo per scontato che la domanda comandi. Ma non è così. La domanda può essere gestita.
In che modo?
Già da dieci, vent’anni negli Stati Uniti ci sono programmi di demand response. Ora ci sono anche in Europa e in Italia. Gli operatori della rete elettrica potrebbero cioè gestire, in situazioni critiche, i condizionatori, i frigoriferi e così via. C’è dunque una flessibilità anche nella domanda, che con la digitalizzazione riesce molto più facile rispetto a un tempo.
Nel futuro, inoltre, avremo un gran numero di accumuli sia distribuiti che di grande scala. In Australia e in California ci sono batterie per centinaia di megawatt. Infine segnalo l’importanza del long-term storage: la possibilità, cioè, di accumulare energia per giorni e settimane. Ci sono diverse soluzioni tecnologiche e nel libro ne cito alcune.
Le rinnovabili in Italia sono al palo causa sovraintendenze, autorizzazioni e ricorsi al Tar. Come se ne esce?
È una soluzione paradossale. Elettricità Futura, l’associazione di Confindustria delle grandi compagnie elettriche, ha dichiarato la propria disponibilità a realizzare sessanta gigawatt in tre anni, cioè venti gigawatt l’anno; 20.000 megawatt all’anno contro la media di meno di 1.000 megawatt degli ultimi anni. Una provocazione. Come a dire: noi ci siamo, siamo disponibili. Sicuramente c’è un problema di autorizzazioni che coinvolge tutti: regioni, livello centrale, opposizioni locali e ministero dei beni culturali. Così non si può andare avanti: dal 2014, abbiamo una quota di energia verde bloccata al 38 per cento. E dovremmo arrivare al 72 per cento nel 2030. Entro otto anni! Per cui dobbiamo semplificare assolutamente. Forse adesso si farà.
Eolico: nel libro si tratta il tema dell’inserimento delle pale nel paesaggio. Per Sgarbi e tanti ambientalisti sono dei “mostri”. Per lei?
Per me sono belle. Di sicuro vanno progettate bene. Cosa che non sempre è stata fatta. Detto questo, il paesaggio è sempre cambiato nei secoli e cambierà ancora. Entro il 2050 l’Europa ha l’obiettivo di diventare climate neutral: dobbiamo raddoppiare la produzione di energia elettrica e il fotovoltaico dovrebbe produrre più energia elettrica di quanto oggi ne producano cicli combinati e rinnovabili messi insieme. Per quanto riguarda l’eolico ci sarà un’azione di repowering, cioè la sostituzione di piccole pale con un minor numero di aerogeneratori di maggior potenza. Soprattutto ci sarà una notevole diffusione di parchi eolici in mare aperto. Ovviamente anche per questi non mancano gli ostacoli: in Sicilia, ad esempio, c’è una proposta per un parco eolico a 64 chilometri dalla costa, che ha trovato l’opposizione della Regione siciliana.
Le rinnovabili, la mobilità elettrica, il green avranno delle pesanti ricadute occupazionali e sociali. Non crede che la transizione dovrebbe essere più morbida?
Se parliamo di rinnovabili, però, le dinamiche sono opposte: queste creano molta più occupazione (basti pensare alle decine di migliaia di megawatt da creare) rispetto alle centrali convenzionali. Diverso il discorso dell’automobile, perché il passaggio dall’auto combustione interna all’auto elettrica è effettivamente delicato e va governato (entro il 2035 non potremo più vendere auto a benzina e diesel). In Germania, in Francia, in Spagna i governi hanno impegnato notevoli risorse per garantire la riconversione. In Italia no…
Il sindaco di Roma Gualtieri si è espresso a favore del termovalorizzatore: si tratta di una buona idea?
Premesso che è fondamentale migliorare le percentuali di raccolta differenziata (in Europa e nel nord Italia le percentuali di raccolta sono molto più alte), vanno valutate le varie tecnologie di gestione. In Sicilia, ad esempio, hanno proposto due interventi: uno nella zona di Catania – del tipo quello proposto per Roma – e un altro a Gela, interessante perché si tratta di un processo termochimico in cui si producono idrogeno, metanolo ed etanolo. Ma si tratta di una soluzione diversa rispetto ai normali termovalorizzatori.
Per concludere, il fenomeno Nimby è un problema?
Assolutamente sì: è un problema. E devo constatare con piacere che negli ultimi anni grandi associazioni ambientalista come Legambiente, Greenpeace e Wwf stanno assumendo un atteggiamento propositivo, vista la gravità dell’emergenza climatica. Anche nel mondo green qualcosa sta cambiando.