Energie verdi

5 ostacoli al combustibile solido secondario

Luglio 16, 2020 By

Avete presente la scena di Ritorno al Futuro 2, quando Doc, lo scienziato amico di Marty, mette in moto la macchina del tempo con i rifiuti? In qualche modo è realtà. Nel senso che i rifiuti oggi possono diventare carburante.

Certo, nella nostra storia il carburante non serve per alimentare le auto, ma cementifici (in aggiunta al combustibile fossile) o centrali elettriche producendo energia elettrica. Il concetto, però, è quella prefigurato nella famosa pellicola interpretata da Michael J. Fox: il rifiuto può svolgere un ruolo utile e produrre energia.

Prima di continuare, facciamo ordine. Stiamo parlando del combustibile solido secondario (CSS) e non del CSS-rifiuto che è a tutti gli effetti un rifiuto (speciale) e, per questo, ha usi, limitazioni e disciplina diversi.

Il combustibile solido secondario (CSS) è un particolare tipo di combustibile derivato dalla lavorazione dei rifiuti, che è a tutti gli effetti una fonte alternativa di energia. In pratica, proprio quanto dicevamo sopra: lo scarto, dopo essere stato trattato, acquisisce nuove caratteristiche (per esempio, le concentrazioni di cloro e mercurio diventano pressoché nulle) e nuovo status. Non più rifiuto, dunque, ma concreto risparmio di fonti energetiche non rinnovabili.

Peccato che, sin qui, il CSS abbia incontrato almeno cinque tipi di ostacoli.

1. Il primo è dovuto al quadro normativo complicato. La legge (il D.Lgs. 152/06, meglio noto come Testo Unico dell’Ambiente) prevede due tipi di Css: uno considerato rifiuto speciale, l’altro invece non-rifiuto. Entrambi svolgono ila funzione di combustibili. Cambiano nomi, status, procedure e limiti di utilizzo, ma entrambi svolgono la funzione di combustibile. L’ambiguità lessicale, tuttavia, contribuisce complicare la situazione e a limitare il suo utilizzo.

2. Un altro ostacolo è la procedura per usare il Css come combustibile, che riguarda i trattamenti necessari su rifiuti in uscita da Tmb (il trattamento, cioè, meccanico-biologico che consente il recupero di materiali dai rifiuti indifferenziati). In pratica, solo una parte dei rifiuti urbani in uscita dagli impianti di Tmb (nel 2017, appena il 13, 8%, circa 1,3 milioni di tonnellate) viene inviato a ulteriori trattamenti quali la raffinazione per la produzione di Combustibile solido secondario o la biostabilizzazione (e questo anche perché solo pochi impianti Tmb hanno autorizzazioni e tecnologie adeguate a produrre Css).

3. Un altro ostacolo ancora è dato dalla lunghezza e complessità dell’iter burocratico per ottenere le autorizzazioni, come ad esempio quello sulla Valutazione Impatto Ambientale (Via). Il risultato? Come visto sopra, molti cementifici si ritrovano scoraggiati dall’uso del Combustibile Solido Secondario.

4. C’è poi una questione legata al mercato. La necessità di vendere e collocare subito il carburante da parte di chi produce il Css, infatti, si scontra spesso con le oscillazioni tipiche di business quale quello dell’edilizia e dei cemetifici. Detta altrimenti, non sempre conviene produrre il Css Combustibile.

5. Infine, ci sono gli ostacoli legati ai ricorsi e contestazioni di amministrazioni locali, politici e comitati del No di turno nel momento di autorizzare siti per la valorizzazione termica. La questione è già stata trattata in altre circostanze: sebbene “ripulito” (per esempio, le concentrazioni di cloro e mercurio si annullano) e diventato materia prima seconda, il CSS solido secondario viene ancora percepito come rifiuto e, in quanto tale, come pericolo per la salute. Tanto più se poi dev’essere termovalorizzato. Eh sì, perché termovalorizzare non rientra (sic) nell’ambientalmente corretto. E allora meglio (si fa per dire…) pagare per smaltire o tenere i rifiuti sotto il sole in discarica, piuttosto che farne di questi una fonte di energia e una forza economica.

Insomma, tra normative bizantine e pregiudizi dell’opinione pubblica, il Css fatica a imporsi nella penisola. Un peccato sia perché non mancano eccellenze capaci di produrlo, sia perché si tratta di un’attività importante per l’ambiente e per lo sviluppo sostenibile, con vantaggi energetici e, soprattutto ambientali.

Tra i primi, c’è quello di dipendere meno dai combustibili importati dall’estero e quello di ridurre il consumo di risorse naturali (ad esempio carbone fossile). Tra i benefici ambientali, invece, ci sono la riduzione delle emissioni in atmosfera rispetto ad altre tecnologie di smaltimento dei rifiuti. Che tradotto, vuol dire meno emissioni di gas acidi, anidride carbonica ed emissioni. Per avere un’idea, l’Europa stima che se si seguisse questa strada, la sola Italia eviterebbe di immettere 111 milioni di tonnellate di gas serra in atmosfera ogni anno. Mica poco.