Slow fashion, quando la moda diventa sostenibile

Aprile 27, 2021 By

Quello della moda è il secondo settore al mondo più inquinante. Per questo, sono importanti buone pratiche in grado di conciliare fashion, economia e ambiente.

Un tempo, era normale spendere per capi importanti, come cappotti, piumini e maglioni in lana o cachemire; ma negli ultimi anni, la sfida è trovare un capo “buono” al prezzo minore possibile. Per questo motivo si è diffuso il fast fashion, che ha basato il suo business proprio sulla continua creazione di capi a basso costo. Con la produzione di 92 tonnellate di rifiuti, però, il settore della moda si aggiudica il secondo posto come settore più inquinante del mondo. E in un clima in cui i giovani consumatori, infatti, sono più propensi a sostenere piccoli rivenditori locali oppure brand che rispettano e aiutano l’ambiente è fondamentale che le aziende intraprendano dei cambiamenti in ottica sostenibile.

Cosa significa sostenibilità nella moda?

Le aziende, che scelgono di seguire dei comportamenti sostenibili e in linea con l’Agenda 2030, mirano a instaurare un rapporto armonioso sia con la ambiente sia con le persone; ciò significa tenere conto dell’impatto di un prodotto dal punto di vista etico e ambientale dall’inizio della produzione all’arrivo al consumatore, ma soprattutto significa produrre il giusto, con materiali sostenibili, con un consumo ridotto di energia elettrica e di acqua, e nel rispetto delle risorse impiegate nel ciclo produttivo e in tutti gli altri settori dell’azienda.

Alcuni marchi hanno compreso l’importanza della sostenibilità e hanno cercato di migliorare la loro impronta ecologica e sociale per affrontare al meglio i cambiamenti nei comportamenti d’acquisto da parte dei giovani. Campion del fast fashion come Asos, Zara e H&M dedicano intere sezioni delle loro collezioni alla moda ecosostenibile, cioè prodotta con fibre naturali attraverso una filiera protetta, volta a minimizzare gli sprechi, l’inquinamento e lo sfruttamento dei lavoratori, o promuovono iniziative di raccolta degli abiti usati in collaborazione con associazioni che si occupano di riciclo e recupero, come l’iniziativa Intimissimi Goes Green e Garment Collecting della catena di fast fashion H&M, entrambe in collaborazione con Humana.

Le buone pratiche per divenire sostenibili

L’eliminazione delle sostanze tossiche nella produzione di capi abbigliamento (quali alchilfenoli, ftalati, ritardanti di fiamma bromurati e clorurati, coloranti azoici, composti organici stannici, composti perfluoroclorurati, clorobenzeni, solventi clorurati, clorofenoli, paraffine clorurate a catena corta e metalli pesanti come cadmio, piombo, mercurio e cromo VI) ridurrebbe l’impatto ambientale della tradizionale industria della moda. Utile in questo campo è stato l’impegno di alcune associazioni ambientaliste, come Greenpeace che si batte contro le pratiche impattanti del settore tessile e dell’abbigliamento. L’iniziativa Panni Sporchi è iniziata nel 2011 quando nelle acque reflue delle fabbriche in Cina si scoprì la presenza di alcune sostanze tossiche particolarmente nocive per l’ambiente e le persone.

Il tema delle condizioni dei lavoratori divenne importante all’inizio degli anni ’90 quando, per la prima volta, si scoprì lo sfruttamento da parte di alcuni importanti marchi di moda, per esempio nel 1992 Levi’s fu accusata di non pagare in maniera adeguata i propri dipendenti; nel 1996 Nike che, nonostante la sua campagna contro il lavoro minorile, si serviva proprio di minori per realizzare alcuni suoi prodotti; e nel 1998 Adidas, accusata di sottoporre i prigionieri politici in Cina ai lavori forzati in cambio di un’esigua somma di denaro. Gli scandali sono, poi, aumentati con la nascita del fenomeno della fast fashion, poichè la produzione avviene più velocemente e al minor costo possibile in modo da cavalcare l’onda delle tendenze del momento. Dunque, quando si parla di moda sostenibile non bisogna tralasciare le tematiche legate alle pessime condizioni di lavoro a cui vengono sottoposti i dipendenti delle fabbriche produttive in alcune zone del mondo.

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Le certificazioni delle aziende sostenibili

Per documentare gli obiettivi raggiunti dalle aziende in merito alla sostenibilità, sono state create delle certificazioni ad hoc, come la Global organic textile standard (Gots) che controlla ogni minimo anello della filiera tessile con l’intento di verificare la totale assenza di sostanze chimiche non conformi ai requisiti base sulla tossicità e sulla biodegradibilità; la Certificazione Ocs (Organic content standard) una garanzia per i consumatori che intendono acquistare capi fatti con materie prime di natura organica; la Certificazione Grs (Global recycle standard) una certificazione che viene applicata non solo ai prodotti ma anche alle aziende produttrici che utilizzano materiali riciclati all’interno delle loro creazioni; e, infine, la Certificazione Fsc (Forest stewardship counci) certificazione che attesta la provenienza da foreste gestite in maniera responsabile della materia prima impiegata nella realizzazione del capo d’abbigliamento.

Francesca Martella, 27 aprile 2021